La biblioteca della Badia di Cava dovette sorgere fin dagl’inizi del monastero (sec. XI) per la necessità di fornire libri ai monaci, come prevede la Regola di S. Benedetto. Oltre alla Biblioteca come luogo di conservazione, a Cava ci fu anche uno Scriptorium, nel quale si scrivevano libri necessari per la formazione dei monaci di Cava e dei numerosi monasteri dipendenti: prova ne sono i codici n. 9 (sec. XII) Expositio in I Librum Regum fino a qualche anno fa ritenuto di S. Gregorio Magno ed ora attribuito al monaco Pietro di Cava, n. 18 (sec. XIII) De septem sigillis, n. 19 (sec. XIII) Kalendarium, Evangelia, Apocalypsis, Epistola I Ioannis, Regula S. Benedicti.
L’incremento della biblioteca nel sec. XIV si rileva da notizie riguardanti una Bibbia e lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, nonché gli acquisti per materiale scrittorio e per legature di libri, che purtroppo non ci sono pervenuti. Resta valida l’ipotesi avanzata da Leone Mattei Cerasoli che la dispersione dei libri raccolti nei primi secoli avvenne nell’epoca della commenda (1431-1497) o per l’amore dei libri di qualche cardinale commendatario o per la situazione precaria che faceva ritenere non necessari tanti libri al modesto numero di monaci superstiti.
Benemeriti della biblioteca, al contrario, si dimostrarono i monaci di S. Giustina (su molti incunaboli è annotato l’acquisto compiuto a Venezia proprio per Cava), l’abate D. Vittorino Manso (per primo pensò di separare i libri stampati dai manoscritti e, a salvaguardare l’integrità della biblioteca, nel 1595 ottenne dal papa Clemente VIII una bolla che vietava di asportare libri dalla biblioteca con la minaccia di scomunica), l’abate D. Filippo De Pace (il suo nome si ritrova in migliaia di volumi). Un danno serio fu provocato alla biblioteca la notte di Natale del 1796, quando dal soprastante Corpo di Cava si riversò un ammasso di terra e pietrame, che “rovinò totalmente” la biblioteca, come recita una notizia di cronaca: nel disastro furono certamente perduti molti libri ed anche alcuni manoscritti.
Nell’Ottocento sulla biblioteca dei monaci benedettini non si scatenarono gli elementi naturali, ma le tempeste dei governi: le soppressioni degli ordini religiosi colpirono l’abbazia nel 1807 per opera del re di Napoli Giuseppe Bonaparte e nel 1866 per opera del re sabaudo Vittorio Emanuele II. Nell’un caso e nell’altro l’abate fu lasciato responsabile, nel 1807 come direttore dello Stabilimento e nel 1867 (in forza di una nuova legge) come conservatore del Monumento Nazionale, mentre alcuni monaci vi restarono come custodi.
Questa fisionomia giuridica è rimasta inalterata fino ad oggi. I monaci, da parte loro, hanno continuato a prodigarsi nella gestione con la stessa cura adottata nella conservazione e nell’incremento del patrimonio librario prima che lo Stato italiano lo facesse proprio.
Come nel passato, l’incremento ha privilegiato e privilegia le discipline più consone ad una biblioteca monastica: la patristica, la teologia, il diritto e la storia. Le donazioni di biblioteche sono state accettate tenendo presente la natura dei fondi e la disponibilità di locali. I fondi più cospicui sono i seguenti: Giovanni Abignente (1956), Giovanni Bassanelli (1982), Amalia Santoli (1992).
La biblioteca possiede 65 codici membranacei, circa 100 manoscritti cartacei, 120 incunaboli, oltre 5000 edizioni dei secc. XVI-XVIII. Complessivamente le opere a stampa sono circa 80.000.
Tra i codici più famosi si segnalano: la Bibbia visigotica del sec. IX, il Codex legum Langobardorum del sec. XI, le Etymologiae di Isidoro del sec. VIII, il De Temporibus di Beda del sec. XI, il De septem sigillis di Benedetto da Bari del sec. XII.